Come il non finito può diventare un ideale

Susanna Koeberle
19. Oktober 2022
Setting improvvisato per l’ultima tavola rotonda della Biennale (Foto: Alessandro Tomarchio)

Dal 2016, quando si tenne la prima Biennale svizzera del territorio, sono cambiate molte cose. Ma probabilmente non è cambiato qualcosa in sé, perché le crisi di cui ci occupiamo oggi si preannunciavano da tempo. Non sono quindi un fatto nuovo, è piuttosto la nostra percezione ad essersi modificata. Ed era davvero ora che capitasse. Questo cambiamento è stato dimostrato da numerosi contributi – conferenze, tavole rotonde, filmati, passeggiate e molti altri interventi di circa 80 (!) partecipanti – proposti durante la quarta edizione della Biennale i2a, a un pubblico interessato. Le due giornate non hanno però offerto solo nutrimento intellettuale: per Ludovica Molo, direttrice dell’Istituto di Architettura, anche la convivialità è un elemento essenziale. Nell’organizzare l’evento – con l’aiuto di cinque curatrici e curatori – ai pasti in comune, alle passeggiate, al ballo e allo scambio di opinioni è stata infatti dedicata la stessa attenzione rivolta al programma stesso, quest’anno più denso che mai. A renderlo tale hanno contribuito nuovi formati come il «Call for Action» e il «Call for Pecha Kucha», con cui ci si è voluti rivolgere ai più giovani e renderli parte della Biennale. Questa dinamica si è rispecchiata nelle sette «azioni» scelte (tra le 70 inoltrate), che hanno completato con idee realizzate fisicamente le conferenze degli ospiti invitati. L’atmosfera, durante queste due intense giornate, è stata vivace e concentrata in egual misura.

Dopo l’apertura, avvenuta giovedì sera all’Accademia di Mendrisio con una tavola rotonda sull’argomento di quest’anno, il «(non)finito», l’evento si è spostato nel suo abituale domicilio luganese. Le curatrici e i curatori della Biennale hanno invitato i partecipanti a percorrere una lunga passeggiata, che dal lago di Muzzano conduceva fino alle sponde del Ceresio. Varie soste durante il percorso hanno dato modo all’architetto Marco Del Fedele e ai due architetti paesaggisti Federico De Molfetta e Hope Strode di illustrare il progetto di un percorso che andrebbe a collegare l’area attorno laghetto di Muzzano, che fa parte del reticolo urbano, alla città. Si è parlato anche di vari problemi botanici, come le neofite invasive o il parassita che sta tormentando i castagni, e delle condizioni precarie di molti tipi di piante che soffrono a causa del cambiamento climatico. La passeggiata ha chiarito l’importanza di rivedere la dicotomia tra natura e cultura, di fronte alla crisi climatica. In questo senso anche le discipline dell’architettura e dell’architettura del paesaggio andrebbero unite. Il territorio ha bisogno dell’effetto combinato di questi due approcci, come hanno dimostrato anche vari contributi successivi.

Gli architetti paesaggisti Federico De Molfetta e Hope Strode hanno spiegato il paesaggio e i suoi cambiamenti nel corso di una passeggiata. (Foto: Alessandro Tomarchio)

Anche se il motto «(non) finito» ha concesso molto spazio all’interpretazione, è interessante osservare che le numerose presentazioni e gli interventi abbiano affrontato questioni analoghe. Tra gli argomenti più trattati: risorse, mantenimento, cura, apertura, trasformazione e collettivo, quest’ultimo in rapporto a un’idea di paternità intellettuale modificata. L’insieme di questi termini rappresenta un cambio di paradigma nella comprensione del ruolo dell’architetto. Ruolo su cui negli ultimi decenni si è riflettuto ripetutamente – in questo senso nulla di nuovo – ma l’urgenza che oggi accompagna la discussione è un’altra. Lo testimonia il fatto che anche l’insegnamento si sta muovendo in questa direzione. Ad esempio con il lavoro dell’architetto e filosofo francese Paul Landauer, che nel 2018 a Parigi ha istituito un Master in «trasformazione». Nel suo intervento ha parlato prevalentemente di risorse e del loro utilizzo. Tre esempi di «riparazioni» hanno mostrato come gli architetti lavorino con quello che hanno a disposizione e come oggi, nel costruire, il mantenimento (maintenance) andrebbe considerato fin dall’inizio. Infatti è proprio la contaminazione generata dal materiale di molti edifici a evidenziare per quanto tempo dobbiamo poi occuparci degli errori fatti in questo senso.

Alle risorse materiali naturali e alla loro disponibilità limitata, l’architetta indiana Anupama Kundoo contrappone l’infinità delle risorse umane. Le numerose capacità dell’uomo andrebbero adoperate di più, sostiene Kundoo, intendendo in primo luogo le abilità manuali. Queste rappresenterebbero anche la dimensione temporale di ogni costruzione, come quella di ogni altra attività. Forse è proprio l’accelerazione di molti processi a mostrarci che dovremmo investire più tempo, e non solo nell’architettura. Paternità intellettuali collettive e il «pensare con le mani» sono argomenti che nell’insegnamento, secondo Kundoo, occorre trattare più a fondo, dato che teoria e pratica si condizionano a vicenda. Anche questa idea non è del tutto nuova, ma è comunque stata ripetutamente dimenticata. Così anche molte conoscenze sono andate perdute. L’ottimismo di Kundoo e il suo modo non dogmatico di trattare i materiali trasmettono fiducia. Nell’attuale situazione, rimanere bloccati nei propri schemi di comportamento sarebbe quindi fatale.

La conferenza della filosofa francese Marielle Macé è stata una splendida immersione nel tema della respirazione. (Foto: Alessandro Tomarchio)

Dopo un denso pomeriggio con una tavola rotonda sul tema delle nuove concezioni abitative, non sembrava possibile che l’attenzione potesse bastare per un ulteriore conferenza. Ma non è stato così: l’intervento della filosofa francese Marielle Macé si è rivelato un’illuminante e luminoso modo per concludere la giornata. Le sue riflessioni sulle parole «respirer» e «conspirer» (respirare e cospirare, o secondo la sua teoria, respirare con), che partivano dal presupposto di un «monde abimé» (mondo danneggiato), hanno reso attenti alla mancanza di respiro del nostro presente. Macé interpreta il respiro come fondamentale partecipazione al modo, legata anche al diritto di respirare. È esattamente questo a essere minacciato nell’epoca dell’antropocene o di fronte alla pandemia. La filosofa ha reso attenti anche alla dimensione politica del processo di respirazione, o meglio della sua interruzione: le parole «I can’t breathe» sono diventate il simbolo dell’ingiustizia, con cui un sistema basato sullo sfruttamento tratta le persone che non si inseriscono nello schema culturale ed economico (pre)dominante. Cosa può imparare l’architettura da tutto questo? Che l’ecologia è più di una questione materiale o tecnica o, altrimenti detto, che l’aria è un materiale di cui gli architetti devono prendersi cura. L’aria è ciò che collega le persone tra loro. Macé si è espressa a favore di un’ecologia politica del respiro. La parte ufficiale della serata si è quindi conclusa con un film sull’utilizzo di edifici non finiti da parte di una comunità di skater in Sicilia. Le foto che documentano l’uso particolare dello spazio urbano, erano esposte nel parco di Villa Saroli, la sede dell’i2a, dove si potevano ammirare gli interventi del «Call for Action». Anche alcune e alcuni skater luganesi hanno assistito alla proiezione – una bella presenza aggiunta.

Uno dei progetti «Call for Action», l’hammam di Comte/Meuwly, Arnaud Eubelen e David Moser, che, come si può vedere, è anche stato usato. (Foto: Alessandro Tomarchio)

Nella giornata successiva, il tema della Biennale si è ulteriormente articolato, regalando molti momenti avvincenti e inaspettati; tra le altre cose anche un cambio di scena «territoriale». A causa di problemi di spazio, le relazioni si sono tenute in un’altra sede, poco distante dall’istituto. Tra i vari contributi proposti nella seconda giornata, vanno evidenziati in particolare i «Regards Croisés» di Milica Topalovic (professoressa al Politecnico federale di Zurigo) e Mirko Zardini (architetto, curatore e autore). Nel suo intervento, Topalovic si è occupata di agricoltura, il «lavoro sul campo» che dovrebbe far parte anche dei campi di attività e di pensiero dei futuri architetti. L’esempio della Svizzera in particolare, rende evidente quanto sia cambiata l’agricoltura. I contadini e le contadine rappresentano solo il tre percento della popolazione. Questa cifra pone anche la questione del valore, o della rivalutazione delle regioni rurali. Che siano importanti è fuori discussione. Città e campagna diventano indicatori di una divergenza tra le mentalità, che si manifesta anche nella comprensione per il mestiere di contadino, definito tutt’ora come tipicamente maschile. Questo modo di pensare è definitivamente sorpassato. 

Una possibile soluzione alla problematica agraria, consisterebbe nel portare più agricoltura in città. Ancora più importante sarebbe proteggere il terreno come tale, anche con la legge. L’unica possibilità per affrontare i cambiamenti climatici e le rispettive sfide, non è data dall’industria agraria ma dall’ecologia agraria. Nel successivo scambio con Zardini, Topalovic ha sottolineato la differenza tra i verbi «to fix» (rattoppare) e «to repair» (riparare), dove il secondo racchiude appunto l’idea del prendersi cura. Come l’immagine dell’agricoltura possa diventare un mezzo per comprendere i cambiamenti, lo ha spiegato Mirko Zardini con le sue brillanti argomentazioni, tratteggiando la storia delle crisi e sottolineando la smemoratezza degli uomini. Oggi non possiamo però più permetterci di far ritorno alla normalità, una volta che la crisi sarà «finita». All’architettura viene quindi posto un compito importante, crede Zardini, inquanto ha la possibilità di contribuire a definire le problematiche e a prepararsi alle crisi.

Nella Limonaia del Parco Saroli sono state esposte tutte le proposte «Call for Action» inoltrate. (Foto: Paolo Abate)

Il cambio di sede, come accennato sopra, ha dato movimento alla manifestazione. La discussione moderata dall’architetta e urbanista Charlotte Malterre-Barthes è ruotata attorno al prendersi cura (care) su altri livelli e ha mostrato quanto potenziale racchiuda questo semplice concetto – e quanta necessità di agire. Lo studio Bessire Winter ha inscenato assieme a Stefan Wülser – il loro contributo «territorial shift» faceva parte del «Call for Action» – il trasferimento della manifestazione con una piccola performance. Finita l’introduzione, i partecipanti sono stati invitati a prendere una sedia pieghevole sottobraccio e seguire il team. Dopo una breve passeggiata, si sono ritrovati tutti in un’infrastruttura all’aperto munita di tetto, che ricordava un vecchio mercato. La struttura verrà presto demolita, fatto che ha reso la scelta del posto ancora più «scottante». Qui, con pochi gesti, si è creato un nuovo spazio per l’ultima tavola rotonda proposta dalla Biennale. Caffè, torta e anche liquori hanno offerto benessere fisico al pubblico in ascolto.

Le conferenze proposte alla Biennale dell’i2a (qui sopra quella di Anupama Kundoo) si sono tenute al Consolato Generale d’Italia di Lugano. (Foto: Alessandro Tomarchio)

Dopo una meritata pausa per mangiare, nel parco si sono svolti gli happening conclusivi, che grazie anche al loro carattere transdisciplinare e performativo sono stati un vero piacere. L’annunciata proiezione cinematografica si è rivelata un «audio walk», proposto dal team Bessire Winter e Stefan Wülser, attraverso una Lugano notturna, dove il film si è per così dire proiettato nella testa dei partecipanti. Spezzoni di testi e estratti sonori ricavati da film si sono intercalati a piccoli avvenimenti. Il tutto non è stato soltanto estremamente piacevole, ma anche concepito con precisione nella scelta dei vari luoghi ed eseguito a regola d’arte per quanto riguarda la tecnica. Ritornati a Villa Saroli, i partecipanti sono stati rapiti dal magico mondo dei lupi grazie a un film di Aline d’Auria e un’esecuzione dal vivo del musicista Francesco Giudici. Un evento di architettura così poliedrico è una cosa rara. La Biennale svizzera del territorio celebra proprio grazie a questa vastità la peculiarità dell’architettura di restare sempre in movimento. 

Il progetto «Territorial Shift» consisteva in un «audio walk» notturno attraverso Lugano. (Foto: Alessandro Tomarchio)

Traduzione dal tedesco: Nadia Bendinelli

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